Fiammiferino

Coi fiammiferini, minuscoli bambolotti chiusi dentro a scatoline di cartone, ci giocavo da piccola. La pubblicità che vedevo in tivù al pomeriggio mentre facevo merenda con il panino col burro e lo zucchero diceva “Fiammiferino accende un lampo di gioia nei tuoi occhi” e questa cosa che la gioia si potesse accendere mi piaceva molto, così quando mia nonna andava in città in autobus me ne portava a casa uno. Ne avevo tre, uno con la tutina azzurra, uno con la maglietta rossa e i pantaloncini bianchi e un altro tutto a righe con una sciarpetta al collo che mi sembrava molto parigino e mi ero convinta che tutti i neonati a Parigi fossero vestiti più o meno così. I fiammiferini li toglievo dalla scatola, li facevo un po’ camminare sul tavolo della cucina, seduti non ci stavano perché il pannolenci di cui erano fatti non rimaneva piegato, il berretto non potevo levarlo perché era cucito sul ciuffo, allora li portavo a scuola nascosti nell’astuccio altrimenti la maestra me li ritirava, a casa qualche altro giro sul tavolo e poi li riponevo con molta cura nella loro scatolina. Ci ho giocato qualche settimana e poi basta, perché che giochi puoi fare con un bambolotto minuscolo in scatola?

Quando quella mattina presto davanti all’ospedale una signora mi ha messo in mano una scatolina rosa con scritto centro aiuto alla vita e dentro c’era un piccolo feto sono tornata bambina piccola nella cucina di mia nonna anche se il feto non aveva né la tutina né il berretto cucito, era nudo come lo sono tutti i feti nella pancia e anche io mi sono sentita nuda davanti a quella donna che mi ha detto non entrare, fermati a pregare qui con noi, ti possiamo aiutare. Sono entrata in ospedale, sotto choc ma sono entrata, ancora più sicura di ciò che stavo facendo, ho percorso a piedi le quattro rampe di scale, non me la sono sentita di prendere l’ascensore, e sono arrivata al secondo piano, medicina generale, porta numero 41, nel corridoio c’ero solo io.

Due settimane prima, mentre facevo la spesa al supermercato, ero entrata alla parafarmacia chiedendo un test di gravidanza e alla farmacista che lo prendeva dallo scaffale mi ero sentita di precisare che volevo solo essere sicura di non essere incinta e che era praticamente impossibile che lo fossi perché la ginecologa mi aveva detto che mostravo già qualche segno di menopausa e lei ma figurati, quale menopausa, sei giovanissima!, sapevo che mi avrebbe risposto così, ho 48 anni, oddio, non li dimostri, allora ti capisco, io ne ho 46 e se rimanessi di nuovo incinta ora mi butterei dalla finestra per il terrore di ricominciare tutto da capo, ho due figli alle elementari. In quella farmacia non sono più entrata per paura che la farmacista mi riconosca e mi chieda com’è poi andata.

Dopo aver fatto la pipì sul tampone le linee del test sono andate molto più veloci della mia capacità di realizzare quello che stava accadendo, ero incinta davvero e non a caso il test me l’aveva fatto sapere col simbolo di una croce; ancora seduta sul water la prima cosa che mi è venuta in mente è che non avrei più potuto farmi la tinta ai capelli, quello è stato l’unico momento in cui ho pensato ad un futuro per quella gravidanza, il tempo di asciugarmi con la carta e tirarmi su i pantaloni e tutta l’idea di futuro era già passata.

Ora capivo perché gli spaghetti alle vongole non avevano più il sapore che mi piaceva tanto, il vino mi provocava un bruciore di stomaco incredibile e facevo fatica a respirare, un grumo di cellule si era piazzato al centro di me e chiedeva uno spazio che non potevo assolutamente concedergli, quel grumo si posizionava nello spazio del terrore probabile, anzi quasi certo: ciò che avevo vissuto negli ultimi vent’anni e che credevo passato, o per lo meno sotto controllo, tornava con prepotenza a dirmi che non ero mia e che se avessi portato avanti quella gravidanza, non lo sarei probabilmente mai più stata.

La mattina dopo ho telefonato in consultorio per sapere come si abortisce, non l’avevo mai fatto e non lo sapevo, l’ostetrica è stata tanto gentile e mi ha dedicato molto tempo, mi ha detto che non sapeva proprio come avessi fatto a rimanere incinta a 48 anni, che era una cosa praticamente impossibile, poi mi ha chiesto come mai pensavo di fare quella scelta, le ho spiegato che ho una sorella con problemi psichiatrici e che per vent’anni avevo accudito i miei genitori malati e stavo continuando ma lei mi ha fermata, tesoro non ti devi giustificare, ah scusi, rispondevo alla sua domanda, ma lei aveva già ripreso a parlare spiegandomi che alla mia età le possibilità di mettere al mondo un bambino gravemente malato erano tantissime, a maggior ragione se avevo familiarità e quindi facevo bene a considerare l’aborto, anche se sarei stata in tempo fino all’ultimo per ripensarci e che comunque molto probabilmente l’avrei perso da sola quel bambino perché alla mia età spesso succede così, quindi mi aveva dato appuntamento per il colloquio per ottenere il certificato per l’interruzione due settimane dopo, augurandomi di abortire spontaneamente nel frattempo e salutandomi con uno squillante ciao tesoro. Provavo una sensazione strana, mi ero sentita accolta ma anche tanto compatita, le parole pietose che mi aveva riservato l’ostetrica servivano a lei, a me veniva solo da bestemmiare.

Nel frattempo mi ero messa in malattia, perdevo peso, non andavo più di corpo,  dormivo due, tre ore e il resto della notte lo trascorrevo in preda al panico, nella mia mente passava ininterrottamente un film del terrore in cui i protagonisti erano mia sorella e quella volta che da piccole mi ha spaccato il setto nasale con il tubo dell’aspirapolvere e tutte le altre volte che aveva alzato le mani su di me e mi aveva urlato contro quasi fino a spostarmi con l’onda d’urto delle parolacce, i tantissimi anni trascorsi in ospedale da sola a vedere i miei genitori che morivano un po’ ogni giorno fino a quando sono morti davvero, mio marito e la sua malattia cronica che si trasmette di padre in figlio, i bambini gravemente malati di cui parlava l’ostetrica e il film finiva e ricominciava continuamente, non si interrompeva mai se non con qualche goccia di xanax. Forse la cosa migliore poteva essere non dormire più finché non sarebbe stato tutto finito.

Come potevo aspettare due settimane in quelle condizioni? Inizio a cercare in rete associazioni pro choice e scopro che il certificato di interruzione di gravidanza poteva farmelo anche la mia ginecologa, non lo sapevo, nessuno ti da tutte le informazioni corrette in una volta sola, te le devi cercare da sola se lo sai fare, oppure aspetti e nel frattempo vivi in un incubo. In certi momenti, quando lo sconforto diventa grandissimo, pensi che non ne uscirai mai, che forse è più semplice fare la madre e poi sarà come dio vorrà, le donne sono madri da millenni, chi sono io per sottrarmi a questa legge prestabilita, anche il mio medico di base me l’ha detto, perché vuoi abortire, Pierpaolo ti ama tanto, non pensi a lui, ma Pierpaolo era d’accordo con me perché noi vivevamo nel mondo reale, nel nostro mondo, quello in cui nessuno può permettersi di dire niente perché come stanno davvero le cose lo sapevamo solo noi e invece no, gli altri parlavano lo stesso.

Il giorno dopo sono andata dalla mia ginecologa, mi ha accompagnata Pierpaolo anche se avrei voluto andare da sola,

si sdrai sul lettino, le devo fare un’ecografia,

ma perché dottoressa?, ci sono rimasta malissimo,

perché serve una datazione precisa della gravidanza, ha risposto dolcemente, ma il suo tono non mi ha consolata, anzi; mio marito mi aveva vista centinaia di volte in quella posizione ma stavolta ho chiesto il separé, non volevo che mi vedesse a gambe aperte  lì, così e mi sono ripromessa che mai più mi sarei fatta accompagnare ad una visita ginecologica. C’era la camera gestazionale ma non il battito, la dottoressa non se lo aspettava, ora mi dirà che abortire è l’unica soluzione possibile e invece no, non l’ha detto, ha voltato il monitor del computer verso di me e ha esclamato eccolo, ma eccolo cosa e nel frattempo la crepa del senso di colpa si era aperta in me. Ha stampato una decina di immagini che ha allegato al certificato, non ho letto quello che c’era scritto, ricordo solo che in stampato maiuscolo in fondo diceva anche avevo sette giorni per ravvedermi dalla mia decisione, ho firmato io, poi lei e tornando a casa mi sono illusa che il più fosse fatto, che mi separassero solamente due pastiglie dalla vita di prima.

Ho telefonato in consultorio, l’ostetrica era impegnata, doveva richiamarmi ma non l’ha mai fatto, ho annullato l’appuntamento di dieci giorni dopo tramite fascicolo sanitario elettronico, non mi piace che la gente mi aspetti inutilmente.

La mattina che ho rifiutato il feto fiammiferino davanti alla porta numero 41 c’ero solo io; la caposala con cui avevo parlato al telefono mi aveva detto di presentarmi lì e nient’altro, mi chiedevo se per caso avessi sbagliato corridoio, reparto, ospedale, città, mondo. Nel frattempo è arrivata una giovane dottoressa con un enorme mazzo di chiavi in mano, non trovava quella giusta, avvertivo il suo imbarazzo, ripensavo nel frattempo a quando da ragazzina ero fermamente convinta che il fato governasse tutto e se fosse accaduto che dovevo entrare in un luogo di cui non si trovava la chiave il segno era chiaro, me ne sarei dovuta andare. Invece sono rimasta lì e mi sono ritrovata a sorridere, com’è diverso il mondo dei grandi da quello che ti raffiguri da adolescente. Finalmente la dottoressa ha trovato la chiave giusta, mi sono seduta davanti a lei in quell’ambulatorio quasi vuoto e con le tapparelle abbassate, fuori c’era una giornata grigia e piovosa ma un po’ di orizzonte l’avrei cercato volentieri,  mi ha detto che era il primo aborto che faceva lì perché era appena arrivata in quell’ospedale, avrei voluto risponderle benvenuta ma non mi sentivo la persona più adatta per farlo. Mi ha fatto un’altra ecografia ma è stata velocissima, stavolta nessun monitor voltato verso di me per tentare il ravvedimento, nessuna parola di conforto e nessun tono accondiscendente, solo tante domande, quanti anni ha, è coniugata, qual è il suo titolo di studio, che tipo di lavoro svolge, ah queste domande sono per l’ISTAT signora, non si preoccupi, no no, non mi preoccupo ma chissà se per l’ISTAT è meglio o peggio che una quarantottenne sposata, laureata e con un buon lavoro decida di abortire. Si pensa sempre che chi abortisce sia giovane, o sola, o un po’ sprovveduta e ignorante o mignotta e invece no. Dopo avermi firmato la ricetta ospedaliera per la pillola abortiva mi ha affidata alla caposala, quella con cui avevo parlato al telefono, una donna asciutta e scontrosa, mi dava del tu, non mi guardava negli occhi, camminava nei corridoi velocemente senza aspettarmi, mi ha portata in una sala d’attesa e mi ha detto aspettami qui, nella stanza c’erano una decina di sedie ammassate sulla parete più lunga, una era occupata da una signora di mezza età con un borsone nero, chissà che intervento doveva fare, aveva voglia di parlare ma io no, ho accennato un saluto con gli occhi e ho subito abbassato lo sguardo. Pochi minuti dopo è tornata la caposala con un piccolo blister bianco, se fra quindici minuti stai bene puoi andartene direttamente, non mi aveva neppure portato l’acqua per ingoiarla, la pastiglia, ho chiamato Pierpaolo con il mio iPhone e dopo tredici minuti ero fuori da lì.

Tre giorni dopo mi sono ripresentata per la seconda pastiglia, stavolta c’era il sole, sapevo che sarebbe stata una giornata più pesante ma ero pronta, davanti all’ambulatorio numero 41 c’erano molte donne, non me l’aspettavo. Si è presentata un’altra ginecologa, mi ha fatta entrare, credeva di dovermi somministrare la prima pastiglia, l’ho aggiornata, non aveva letto nulla della mia cartella, si sdrai, devo farle un’ecografia, ancora!, sì, ancora, mi sono sdraiata, ho aperto le gambe, un altro medico senza bussare ha aperto la porta, me lo sono trovato davanti e stavolta non disponevo di nessun separé non si è neppure scusato, mi serve l’ecografo dice e la ginecologa ho quasi finito, mentre mi rivestivo ha staccato i fili e portato via il macchinario, la dottoressa mi ha prescritto la seconda pastiglia e ha illustrato tutti gli effetti collaterali che avrei potuto avere ma a me non interessavano, non avevo paura, volevo soltanto iniziare, finire, uscire da quell’ospedale e dimenticarmi di tutto. In reparto ho ritrovato la caposala ispida, stavolta niente sala d’attesa, mi ha condotta ad un letto in una camera in cui c’era già un’altra donna col pancione in camicia da notte, leggeva un libro giallo ed era sorridente, le mie due pastiglie da sciogliere sotto la lingua più una compressa di tachipirina erano già pronte sul mio comodino e stavolta c’era anche un bicchiere d’acqua. Mi ero vestita comoda,  di nero, come si fa quando si hanno le mestruazioni, così se ti sporchi non si vede, avevo messo un assorbente plus e speravo di tornare a casa prestissimo. Dopo aver preso le due pastiglie rosa mi sono messa a letto e ho sentito subito che il dolore esplodeva, non era partito piano, ho mandato giù quasi subito anche la tachipirina, sentivo le contrazioni che partivano dalla pancia e scendevano giù per le gambe veloci, non avevo mai provato nulla del genere, tremavo, cercavo di distrarmi guardando fuori dalla finestra dietro la collina, su per i paesaggi che conoscevo bene, il male cresceva troppo in fretta, ho suonato il campanello. È arrivata un’infermiera scocciata, mi ha chiesto cos’avessi, le ho spiegato, mi ha risposto che era impossibile che avessi contrazioni del genere in così poco tempo e che tante donne avevano fatto tutto senza il minimo dolore, che dovevo calmarmi e respirare perché certamente il mio era un condizionamento psicologico e se n’era andata. Nel frattempo ho vomitato sul cuscino ed ero insanguinata fino a metà schiena perché il mio assorbente non era neppure lontanamente sufficiente a contenere quel flusso; avrei voluto andare in bagno a cambiarmi ma il dolore non mi permetteva di stare in piedi, mi ha aiutata mia compagna di stanza che mi ha portato della carta per pulire il vomito e mi ha sostenuta fino al bagno, mi consolavo pensando che era tutto quasi finito e che fra poco sarei tornata a casa. Accanto al mio letto era ricomparsa però la ginecologa del mattino, venga, la devo visitare, ma venga dove?, nel mio ambulatorio, mi segua, ho impiegato un’eternità a percorrere quel corridoio e mentre mi toglievo gli slip per sdraiarmi sul lettino il sangue è colato giù dalle cosce, lasciavo impronte di sangue, alla bell’e meglio mi sono arrampicata sui reggigambe, avevo ancora talmente tanto dolore che non riuscivo a stendermi, ero tutta contratta, si rilassi dice la ginecologa, non ne posso più, rispondo io.

– Ada ora che stai meglio posso finalmente dirti come avrei fatto io se fossi stato al tuo posto?

– Dimmi Francesco…

Francesco era il mio miglior amico ed era gay.

– Avresti potuto portare a termine la gravidanza e poi io avrei adottato il tuo bambino, tu avresti fatto la zia e saremmo vissuti tutti felici e contenti!

– Già, ma perché non mi è venuto in mente? Però avresti dovuto chiamarlo Fiammiferino!

– Ma che brutto nome, per carità.

{Questo mio racconto è stato pubblicato sul numero 8 della rivista letteraria Bomarscé}

2 pensieri riguardo “Fiammiferino

  1. Ho aspettato tanto, prima di leggere questo racconto, perché sapevo che avrebbe avuto su di me un effetto molto forte. E così è stato. Forse non è un caso che lo stia leggendo ora, in un periodo in cui leggi retrograde in Paesi cosiddetti civilizzati riportano indietro le lancette della storia, e mostrano chiaramente come i diritti non siano mai conquistati definitivamente, non sia un’illusione nella quale ci si può cullare. E non parlo tanto del diritto all’aborto come pratica in sé, sancito dalla legge e pur troppo spesso disatteso dalla carenza delle strutture sanitarie sul territorio o da una distorsione dell’obiezione di coscienza. No, i diritti negati di cui parla il tuo racconto sono altri: il diritto alla solidarietà, alla compassione, all’assenza di giudizio o quantomeno al rispetto che si deve ad ogni persona, soprattutto nel momento in cui si trova a prendere una decisione che, quali che siano i motivi che la determinano, non è mai semplice e non lascia mai indenni.

    Scritto benissimo, e molto coraggioso.

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