Amo tantissimo i giorni di vacanza perché posso dare alle mie giornate la forma che voglio, ma anche perché ho più tempo per ascoltare, leggere e vedere storie. Storie che ti assalgono all’improvviso, quando proprio non te l’aspettavi.
Tipo l’altro giorno, quando ero nello stesso punto in cui mio padre fotografava la Ghirlandina quarant’anni fa, anzi di più e mi sono sentita chiamare. Volevo rifare la foto esattamente uguale a quella che avevo appena ritrovato nell’album di famiglia e mi stavo dicendo doveva essersi messo qui, anzi qui e mi chiedevo se quella sera mio papà era da solo o se c’ero anch’io, o se era uscito con i suoi amici Ivano e Fernando…
bè, ad un certo punto ho sentito Cri! Criii sei proprio tu?!, mi sono voltata ed era Kabuby, non lo vedevo da tantissimi anni. Kabuby e suo fratello sono orfani e vent’anni fa, mi ero appena sposata con Marco, li avevamo praticamente adottati; passavamo il Natale insieme, li aiutavamo a tenere in ordine la casa e a stare dietro alle vaccinazioni dei loro cani, andavamo insieme al cimitero a mettere i fiori alla loro mamma senza sapere che da lì a poco anche la mia si sarebbe trasferita in uno di quei mini appartamenti e avremmo portato fiori pure a lei, ci trovavamo spesso a cena e parlavamo tanto, avevo fatto amicizia anche con l’assistente sociale che per forza di cose li seguiva e che dopo qualche anno avrebbe iniziato a seguire anche mio fratello, quando siamo rimasti orfani pure noi.
La felicità che ho provato vedendolo non riesco a descriverla bene. Diciamo che somiglia a tutto quello che vi viene in mente quando pensate al sentirvi a casa. Ma la cosa più incredibile è stata quando Kabuby mi ha detto sai che mio fratello si è sposato?! e io no, non lo sapevo! Che bello! Ha trovato una brava ragazza?, Si è sposato con l’assistente sociale
e lì mi è stato immediatamente chiaro, ancora una volta, quanto è incredibile l’amore, soprattutto quello che secondo le persone non si dovrebbe fare perché non sta bene e invece l’amore coraggioso e folle è stupendo ed è stato un bellissimo modo di lasciare il duemila e ventidue.
Felice duemila e ventitré!
Io sulla Ghirlandina dopo aver incontrato Kabuby ♥️
Ieri, seduta su una panchina al sole nel Parco naturale dei Mulini a Bagno Vignoni, sono stata travolta da un’ondata di gratitudine profonda e assoluta per tutto, anche per ciò che mi rende triste e allora covo un po’ la gioia e poi devo condividerla assolutamente . Così a pranzo, davanti agli affettati e al pane toscano e con un bicchiere di brunello di Montalcino di Cacio in mano, ho detto solennemente a Massi: Massi guarda che noi siamo molto fortunati! e lui lo so.
Credo che alla base di questa gioia ci sia la fortuna di poter dire ci vediamo l’anno prossimo alla signora dei profumi della piazza d’acqua, alla Barbara della Locanda del Loggiato, anche al signor Mario di Pienza che mi ha fatto da cicerone verso il Romitorio della Madonna a sei dita che però era chiuso e lui mi ha risposto non so se ci sarò, ho novant’anni e io bè, io vengo e Mario va bene, ti aspetto. L’idea che la gioia torna e nel frattempo la puoi mettere via e tirarla fuori quando ne hai bisogno mi genera un benessere che fatico a spiegare, anche se non è sempre stato così. Per molti anni, da quando ho visto da molto vicino la malattia e poi la morte e l’abbandono e avevo tanta rabbia e tristezza dentro, mi aspettavo sempre il peggio, ero convinta che se accadeva una cosa bella era solo questione di attimi e nel giro di poco si sarebbe rovinato tutto, avrei perso la gioia e certamente sarebbe arrivata un’altra disgrazia. La tristezza era diventato un abito comodo e semplice da indossare, ero abituata a perdere tutto da un momento all’altro e così avevo imparato a sottrarmi all’impegno e alla dedizione che la felicità invece richiede.
Ho iniziato a rimanere, a non scappare quando ho detto sì a Massi e ci siamo sposati e ho iniziato a vedere che se la scegli poi la gioia torna puntuale, sempre. Spesso tornano anche il dolore e la delusione, lo sconforto e la stanchezza, ma poi passano, sempre.
Rimane una randagia gioiosa che spesso si veste di blu, nero e marrone insieme e ha il rossetto a volte sbavato, con gli occhi che quando è molto felice da verdi diventano azzurri e che ama moltissimo condividere la gioia che trova.
Il momento in cui ieri covavo la gioia {foto di Massi. Pasqualino elemento fondamentale della mia felicità}
Che emozione tornare a scrivere qui dopo tanto che non lo facevo. In questi anni di quasi silenzio è trascorsa tanta vita, stavo per scrivere dolore ma no, è vita, tutta.
Vita che scorre forte e dura, che ti stropiccia e a volte ti piega ma che ti fa anche arrivare a sera felice e grata per tutto ciò che hai potuto imparare e perché sei sempre di più te stessa e questa è una benedizione.
Ieri insieme a Massi e a Pasqualino siamo tornati a Bellaria per stare un pochino sulla spiaggia grande e bagnata, senza lettini e con le cabine dei bagni mezze diroccate, la luce tenue e il tappeto di foglie di tutti i colori sui vialetti del lungomare, e proprio in spiaggia ho scoperto da facebook che è mancato Pino Boschetti, santarcangiolese, il pittore dell’incanto che avevamo conosciuto proprio a Santarcangelo tre anni fa e di cui avevo anche scritto qui (Ostinata pazienza). Scorrendo il diario per ritrovare Ostinata pazienza e ricordare così Pino mi sono resa conto di quante parole vive ho scritto in questi anni e di come tante persone ogni giorno visitino ancora Comequando; in molt* poi mi scrivete per raccontarmi che le mie parole e le mie storie hanno fatto compagnia, hanno sostenuto in un momento difficile, hanno contribuito a costruire senso e io mi commuovo.
Anche stamattina, quando una nipote di Pino mi ha ringraziata per le parole sullo zio e soprattutto per la foto della nonna Dina, mi sono commossa e ho deciso che Comequando deve tornare piazza, osteria, piccola via in cui incontrare storie e visi, emozioni e vita, per trovarsi e ri-trovarsi .
A Dio Pino.
Felice Samhain.
A presto
Io e Pasqualino sul vialetto di mio padre {Bellaria}
Coi fiammiferini, minuscoli bambolotti chiusi dentro a scatoline di cartone, ci giocavo da piccola. La pubblicità che vedevo in tivù al pomeriggio mentre facevo merenda con il panino col burro e lo zucchero diceva “Fiammiferino accende un lampo di gioia nei tuoi occhi” e questa cosa che la gioia si potesse accendere mi piaceva molto, così quando mia nonna andava in città in autobus me ne portava a casa uno. Ne avevo tre, uno con la tutina azzurra, uno con la maglietta rossa e i pantaloncini bianchi e un altro tutto a righe con una sciarpetta al collo che mi sembrava molto parigino e mi ero convinta che tutti i neonati a Parigi fossero vestiti più o meno così. I fiammiferini li toglievo dalla scatola, li facevo un po’ camminare sul tavolo della cucina, seduti non ci stavano perché il pannolenci di cui erano fatti non rimaneva piegato, il berretto non potevo levarlo perché era cucito sul ciuffo, allora li portavo a scuola nascosti nell’astuccio altrimenti la maestra me li ritirava, a casa qualche altro giro sul tavolo e poi li riponevo con molta cura nella loro scatolina. Ci ho giocato qualche settimana e poi basta, perché che giochi puoi fare con un bambolotto minuscolo in scatola?
Quando quella mattina presto davanti all’ospedale una signora mi ha messo in mano una scatolina rosa con scritto centro aiuto alla vita e dentro c’era un piccolo feto sono tornata bambina piccola nella cucina di mia nonna anche se il feto non aveva né la tutina né il berretto cucito, era nudo come lo sono tutti i feti nella pancia e anche io mi sono sentita nuda davanti a quella donna che mi ha detto non entrare, fermati a pregare qui con noi, ti possiamo aiutare. Sono entrata in ospedale, sotto choc ma sono entrata, ancora più sicura di ciò che stavo facendo, ho percorso a piedi le quattro rampe di scale, non me la sono sentita di prendere l’ascensore, e sono arrivata al secondo piano, medicina generale, porta numero 41, nel corridoio c’ero solo io.
Due settimane prima, mentre facevo la spesa al supermercato, ero entrata alla parafarmacia chiedendo un test di gravidanza e alla farmacista che lo prendeva dallo scaffale mi ero sentita di precisare che volevo solo essere sicura di non essere incinta e che era praticamente impossibile che lo fossi perché la ginecologa mi aveva detto che mostravo già qualche segno di menopausa e lei ma figurati, quale menopausa, sei giovanissima!, sapevo che mi avrebbe risposto così, ho 48 anni, oddio, non li dimostri, allora ti capisco, io ne ho 46 e se rimanessi di nuovo incinta ora mi butterei dalla finestra per il terrore di ricominciare tutto da capo, ho due figli alle elementari. In quella farmacia non sono più entrata per paura che la farmacista mi riconosca e mi chieda com’è poi andata.
Dopo aver fatto la pipì sul tampone le linee del test sono andate molto più veloci della mia capacità di realizzare quello che stava accadendo, ero incinta davvero e non a caso il test me l’aveva fatto sapere col simbolo di una croce; ancora seduta sul water la prima cosa che mi è venuta in mente è che non avrei più potuto farmi la tinta ai capelli, quello è stato l’unico momento in cui ho pensato ad un futuro per quella gravidanza, il tempo di asciugarmi con la carta e tirarmi su i pantaloni e tutta l’idea di futuro era già passata.
Ora capivo perché gli spaghetti alle vongole non avevano più il sapore che mi piaceva tanto, il vino mi provocava un bruciore di stomaco incredibile e facevo fatica a respirare, un grumo di cellule si era piazzato al centro di me e chiedeva uno spazio che non potevo assolutamente concedergli, quel grumo si posizionava nello spazio del terrore probabile, anzi quasi certo: ciò che avevo vissuto negli ultimi vent’anni e che credevo passato, o per lo meno sotto controllo, tornava con prepotenza a dirmi che non ero mia e che se avessi portato avanti quella gravidanza, non lo sarei probabilmente mai più stata.
La mattina dopo ho telefonato in consultorio per sapere come si abortisce, non l’avevo mai fatto e non lo sapevo, l’ostetrica è stata tanto gentile e mi ha dedicato molto tempo, mi ha detto che non sapeva proprio come avessi fatto a rimanere incinta a 48 anni, che era una cosa praticamente impossibile, poi mi ha chiesto come mai pensavo di fare quella scelta, le ho spiegato che ho una sorella con problemi psichiatrici e che per vent’anni avevo accudito i miei genitori malati e stavo continuando ma lei mi ha fermata, tesoro non ti devi giustificare, ah scusi, rispondevo alla sua domanda, ma lei aveva già ripreso a parlare spiegandomi che alla mia età le possibilità di mettere al mondo un bambino gravemente malato erano tantissime, a maggior ragione se avevo familiarità e quindi facevo bene a considerare l’aborto, anche se sarei stata in tempo fino all’ultimo per ripensarci e che comunque molto probabilmente l’avrei perso da sola quel bambino perché alla mia età spesso succede così, quindi mi aveva dato appuntamento per il colloquio per ottenere il certificato per l’interruzione due settimane dopo, augurandomi di abortire spontaneamente nel frattempo e salutandomi con uno squillante ciao tesoro. Provavo una sensazione strana, mi ero sentita accolta ma anche tanto compatita, le parole pietose che mi aveva riservato l’ostetrica servivano a lei, a me veniva solo da bestemmiare.
Nel frattempo mi ero messa in malattia, perdevo peso, non andavo più di corpo, dormivo due, tre ore e il resto della notte lo trascorrevo in preda al panico, nella mia mente passava ininterrottamente un film del terrore in cui i protagonisti erano mia sorella e quella volta che da piccole mi ha spaccato il setto nasale con il tubo dell’aspirapolvere e tutte le altre volte che aveva alzato le mani su di me e mi aveva urlato contro quasi fino a spostarmi con l’onda d’urto delle parolacce, i tantissimi anni trascorsi in ospedale da sola a vedere i miei genitori che morivano un po’ ogni giorno fino a quando sono morti davvero, mio marito e la sua malattia cronica che si trasmette di padre in figlio, i bambini gravemente malati di cui parlava l’ostetrica e il film finiva e ricominciava continuamente, non si interrompeva mai se non con qualche goccia di xanax. Forse la cosa migliore poteva essere non dormire più finché non sarebbe stato tutto finito.
Come potevo aspettare due settimane in quelle condizioni? Inizio a cercare in rete associazioni pro choice e scopro che il certificato di interruzione di gravidanza poteva farmelo anche la mia ginecologa, non lo sapevo, nessuno ti da tutte le informazioni corrette in una volta sola, te le devi cercare da sola se lo sai fare, oppure aspetti e nel frattempo vivi in un incubo. In certi momenti, quando lo sconforto diventa grandissimo, pensi che non ne uscirai mai, che forse è più semplice fare la madre e poi sarà come dio vorrà, le donne sono madri da millenni, chi sono io per sottrarmi a questa legge prestabilita, anche il mio medico di base me l’ha detto, perché vuoi abortire, Pierpaolo ti ama tanto, non pensi a lui, ma Pierpaolo era d’accordo con me perché noi vivevamo nel mondo reale, nel nostro mondo, quello in cui nessuno può permettersi di dire niente perché come stanno davvero le cose lo sapevamo solo noi e invece no, gli altri parlavano lo stesso.
Il giorno dopo sono andata dalla mia ginecologa, mi ha accompagnata Pierpaolo anche se avrei voluto andare da sola,
si sdrai sul lettino, le devo fare un’ecografia,
ma perché dottoressa?, ci sono rimasta malissimo,
perché serve una datazione precisa della gravidanza, ha risposto dolcemente, ma il suo tono non mi ha consolata, anzi; mio marito mi aveva vista centinaia di volte in quella posizione ma stavolta ho chiesto il separé, non volevo che mi vedesse a gambe aperte lì, così e mi sono ripromessa che mai più mi sarei fatta accompagnare ad una visita ginecologica. C’era la camera gestazionale ma non il battito, la dottoressa non se lo aspettava, ora mi dirà che abortire è l’unica soluzione possibile e invece no, non l’ha detto, ha voltato il monitor del computer verso di me e ha esclamato eccolo, ma eccolo cosa e nel frattempo la crepa del senso di colpa si era aperta in me. Ha stampato una decina di immagini che ha allegato al certificato, non ho letto quello che c’era scritto, ricordo solo che in stampato maiuscolo in fondo diceva anche avevo sette giorni per ravvedermi dalla mia decisione, ho firmato io, poi lei e tornando a casa mi sono illusa che il più fosse fatto, che mi separassero solamente due pastiglie dalla vita di prima.
Ho telefonato in consultorio, l’ostetrica era impegnata, doveva richiamarmi ma non l’ha mai fatto, ho annullato l’appuntamento di dieci giorni dopo tramite fascicolo sanitario elettronico, non mi piace che la gente mi aspetti inutilmente.
La mattina che ho rifiutato il feto fiammiferino davanti alla porta numero 41 c’ero solo io; la caposala con cui avevo parlato al telefono mi aveva detto di presentarmi lì e nient’altro, mi chiedevo se per caso avessi sbagliato corridoio, reparto, ospedale, città, mondo. Nel frattempo è arrivata una giovane dottoressa con un enorme mazzo di chiavi in mano, non trovava quella giusta, avvertivo il suo imbarazzo, ripensavo nel frattempo a quando da ragazzina ero fermamente convinta che il fato governasse tutto e se fosse accaduto che dovevo entrare in un luogo di cui non si trovava la chiave il segno era chiaro, me ne sarei dovuta andare. Invece sono rimasta lì e mi sono ritrovata a sorridere, com’è diverso il mondo dei grandi da quello che ti raffiguri da adolescente. Finalmente la dottoressa ha trovato la chiave giusta, mi sono seduta davanti a lei in quell’ambulatorio quasi vuoto e con le tapparelle abbassate, fuori c’era una giornata grigia e piovosa ma un po’ di orizzonte l’avrei cercato volentieri, mi ha detto che era il primo aborto che faceva lì perché era appena arrivata in quell’ospedale, avrei voluto risponderle benvenuta ma non mi sentivo la persona più adatta per farlo. Mi ha fatto un’altra ecografia ma è stata velocissima, stavolta nessun monitor voltato verso di me per tentare il ravvedimento, nessuna parola di conforto e nessun tono accondiscendente, solo tante domande, quanti anni ha, è coniugata, qual è il suo titolo di studio, che tipo di lavoro svolge, ah queste domande sono per l’ISTAT signora, non si preoccupi, no no, non mi preoccupo ma chissà se per l’ISTAT è meglio o peggio che una quarantottenne sposata, laureata e con un buon lavoro decida di abortire. Si pensa sempre che chi abortisce sia giovane, o sola, o un po’ sprovveduta e ignorante o mignotta e invece no. Dopo avermi firmato la ricetta ospedaliera per la pillola abortiva mi ha affidata alla caposala, quella con cui avevo parlato al telefono, una donna asciutta e scontrosa, mi dava del tu, non mi guardava negli occhi, camminava nei corridoi velocemente senza aspettarmi, mi ha portata in una sala d’attesa e mi ha detto aspettami qui, nella stanza c’erano una decina di sedie ammassate sulla parete più lunga, una era occupata da una signora di mezza età con un borsone nero, chissà che intervento doveva fare, aveva voglia di parlare ma io no, ho accennato un saluto con gli occhi e ho subito abbassato lo sguardo. Pochi minuti dopo è tornata la caposala con un piccolo blister bianco, se fra quindici minuti stai bene puoi andartene direttamente, non mi aveva neppure portato l’acqua per ingoiarla, la pastiglia, ho chiamato Pierpaolo con il mio iPhone e dopo tredici minuti ero fuori da lì.
Tre giorni dopo mi sono ripresentata per la seconda pastiglia, stavolta c’era il sole, sapevo che sarebbe stata una giornata più pesante ma ero pronta, davanti all’ambulatorio numero 41 c’erano molte donne, non me l’aspettavo. Si è presentata un’altra ginecologa, mi ha fatta entrare, credeva di dovermi somministrare la prima pastiglia, l’ho aggiornata, non aveva letto nulla della mia cartella, si sdrai, devo farle un’ecografia, ancora!, sì, ancora, mi sono sdraiata, ho aperto le gambe, un altro medico senza bussare ha aperto la porta, me lo sono trovato davanti e stavolta non disponevo di nessun separé non si è neppure scusato, mi serve l’ecografo dice e la ginecologa ho quasi finito, mentre mi rivestivo ha staccato i fili e portato via il macchinario, la dottoressa mi ha prescritto la seconda pastiglia e ha illustrato tutti gli effetti collaterali che avrei potuto avere ma a me non interessavano, non avevo paura, volevo soltanto iniziare, finire, uscire da quell’ospedale e dimenticarmi di tutto. In reparto ho ritrovato la caposala ispida, stavolta niente sala d’attesa, mi ha condotta ad un letto in una camera in cui c’era già un’altra donna col pancione in camicia da notte, leggeva un libro giallo ed era sorridente, le mie due pastiglie da sciogliere sotto la lingua più una compressa di tachipirina erano già pronte sul mio comodino e stavolta c’era anche un bicchiere d’acqua. Mi ero vestita comoda, di nero, come si fa quando si hanno le mestruazioni, così se ti sporchi non si vede, avevo messo un assorbente plus e speravo di tornare a casa prestissimo. Dopo aver preso le due pastiglie rosa mi sono messa a letto e ho sentito subito che il dolore esplodeva, non era partito piano, ho mandato giù quasi subito anche la tachipirina, sentivo le contrazioni che partivano dalla pancia e scendevano giù per le gambe veloci, non avevo mai provato nulla del genere, tremavo, cercavo di distrarmi guardando fuori dalla finestra dietro la collina, su per i paesaggi che conoscevo bene, il male cresceva troppo in fretta, ho suonato il campanello. È arrivata un’infermiera scocciata, mi ha chiesto cos’avessi, le ho spiegato, mi ha risposto che era impossibile che avessi contrazioni del genere in così poco tempo e che tante donne avevano fatto tutto senza il minimo dolore, che dovevo calmarmi e respirare perché certamente il mio era un condizionamento psicologico e se n’era andata. Nel frattempo ho vomitato sul cuscino ed ero insanguinata fino a metà schiena perché il mio assorbente non era neppure lontanamente sufficiente a contenere quel flusso; avrei voluto andare in bagno a cambiarmi ma il dolore non mi permetteva di stare in piedi, mi ha aiutata mia compagna di stanza che mi ha portato della carta per pulire il vomito e mi ha sostenuta fino al bagno, mi consolavo pensando che era tutto quasi finito e che fra poco sarei tornata a casa. Accanto al mio letto era ricomparsa però la ginecologa del mattino, venga, la devo visitare, ma venga dove?, nel mio ambulatorio, mi segua, ho impiegato un’eternità a percorrere quel corridoio e mentre mi toglievo gli slip per sdraiarmi sul lettino il sangue è colato giù dalle cosce, lasciavo impronte di sangue, alla bell’e meglio mi sono arrampicata sui reggigambe, avevo ancora talmente tanto dolore che non riuscivo a stendermi, ero tutta contratta, si rilassi dice la ginecologa, non ne posso più, rispondo io.
– Ada ora che stai meglio posso finalmente dirti come avrei fatto io se fossi stato al tuo posto?
– Dimmi Francesco…
Francesco era il mio miglior amico ed era gay.
– Avresti potuto portare a termine la gravidanza e poi io avrei adottato il tuo bambino, tu avresti fatto la zia e saremmo vissuti tutti felici e contenti!
– Già, ma perché non mi è venuto in mente? Però avresti dovuto chiamarlo Fiammiferino!
– Ma che brutto nome, per carità.
{Questo mio racconto è stato pubblicato sul numero 8 della rivista letteraria Bomarscé}
Ora che i panni lavati sono stesi al sole, le piante innaffiate, la casa pulita e la candela a le papier d’Arménie accesa posso dirvi una cosa mi è accaduta questa settimana.
È stata una settimana complicata e pesante, ma anche molto bella; adoro quando alla sera ti addormenti sfinita sul divano ma poco prima pensavi proprio che c’è un senso profondo in tutto ciò che fai, che sei tu e hai bisogno di poco altro.
Quella sono proprio io! dicevo qualche giorno fa alla mia psicologa descrivendole come avevo gestito a modo mio una situazione complicata e quel a modo mio si era rivelato un valore aggiunto, un guizzo di empatia dove tantissimi altri avrebbero fatto un passo indietro. Io raramente faccio passi indietro e il prezzo di questa mia caratteristica è stato spesso molto alto, al punto di farmi sentire anche sbagliata, eppure io quando tutto si fa molto difficile e doloroso, quando non c’è alcun tornaconto personale, quando tutti scappano rimango, mi assumo responsabilità anche se non sono mie, accolgo, proteggo, combatto. Solo la delusione profonda mi allontana repentinamente e spesso definitivamente, ma questa è un’altra storia.
La psicologa mi ha ripetuto che la mia altissima capacità di empatia è una delle caratteristiche principali delle persone altamente sensibili, me l’aveva già detto tante volte negli anni scorsi ma io ho sempre creduto che mi stesse dicendo che ero ipersensibile e non ero sicura che fosse una cosa completamente positiva e invece no, intendeva proprio che io appartengo a quel 15-20 % della popolazione che per fattori genetici viene definita HPS, Highly Sensitive People. L’alta sensibilità è un vero è proprio tratto di personalità che implica un processo cognitivo più profondo per quanto riguarda stimoli fisici, emotivi e sociali e una maggiore sensibilità del sistema nervoso centrale e questo comporta una spiccata intuizione per stimoli sottili o addirittura a volte nascosti, una capacità di comprendere molto meglio gli atteggiamenti altrui e una grandissima sensibilità emotiva, nel bene e nel male.
Quasi un super potere insomma che però bisogna imparare a gestire molto bene, perché la sensazione che hai spesso se sei una persona altamente sensibile è di essere senza pelle, di non avere nulla che ti protegge da tutto ciò che accade attorno a te e senti tutto, tutto, tre volte di più, immaginatevi la sfinitezza di certi giorni.
Sono rimasta stupita da questa scoperta e mi sono anche profondamente commossa perché vivevo la mia altissima sensibilità come un punto debole e uno svantaggio, quasi una colpa, un’incapacità di stare al mondo come si dovrebbe e non è per nulla facile vivere sentendosi spesso sbagliata; ora invece scopro di essere quasi una specie protetta come il grifone, l’aquila reale o il falco pescatore,
la Cristina senza pelle specie rara, attenzione a come la trattate, non fatele del male per favore, o non troppo almeno. Grazie.
P.S: se attorno a voi qualcun* alza ancora gli occhi al cielo perché dall’analista ci vanno i matti, non credetegli! Avere una persona accanto che aiuta a mettere ordine nel caos che spesso si ha dentro è un privilegio. Più analisti per tutt*!
Quante sono le cose che ci teniamo dentro e che ci fanno sentire diverse, a disagio, un po’ sbagliate perché non sta bene dirle, chissà cosa pensano le persone poi, certe cose è bene tenerle per sé, non l’hai ancora imparato a quarantacinque anni?!
E le cose che noi donne non possiamo raccontare sono davvero moltissime.
Innanzitutto non possiamo dire quando stiamo male perché c’è ancora tanto l’idea che la donna sia fondamentalmente fatta per stare male, fa parte del gioco, mestruazioni, parto, patologie al femminile, interruzioni di gravidanza, perimenopausa, menopausa, che poi ovviamente non per tutte è così, ma per moltissime sì e dobbiamo tenercele per noi la tristezza e la paura, il dolore e l’estraniazione perché si sa, la donna è volubile, uterina,a tratti isterica, è fatta così.
La nostra vita è costellata di tantissimi tabù di cui noi per prime non parliamo e invece ci farebbe benissimo farlo, perché è vero, siamo fatte così e siamo fatte bene, siamo esattamente noi, l’amore è sangue e noi lo sappiamo perfettamente, eternamente in bilico fra fragilità e forza, fra quello che ci si aspetta da noi e ciò che siamo veramente.
A volte è quasi impossibile chiedere aiuto perché vogliamo sempre fare le forti, le generose, tenere i piedi per terra e non perderci in inutili voli pindarici mentre spesso la forza più grande è proprio nell’ammettere che non ce la facciamo più e agire di conseguenza.
Il 2021 si sta rivelando un anno durissimo per me, che credevo di averne già passate abbastanza. Quest’estate avevo paura di tutto, anche delle cose belle e ho richiamato la mia psy, una delle mie più grandi alleate ed estimatrici e ora va molto meglio, anche se io e la mia ansia post traumatica dovremo convivere ancora per un pochino.
Non sta bene dire certe cose?
Io credo invece di sì e che sia anche coraggioso e bello farlo perché magari qualcuna leggendo queste righe si sentirà meno sola e strana e chiederà aiuto, perché sta storia che dobbiamo sempre essere forti e perfette ha fatto il suo tempo. Andiamo bene esattamente come siamo.
Nella foto: donna in perimenopausa senza calze con 17 gradi, che un tempo si sarebbe messa i calzettoni con 21.
Martedì firmo il contratto a tempo indeterminato e sono molto felice, ma ho anche paura perché la precarietà mi toglieva tante certezze ma tutto sommato me ne lasciava una per me fondamentale, ossia che tutto quello che non mi piaceva, e c’è sempre qualcosa che non piace sul posto di lavoro, sarebbe scomparso al termine del contratto e ora invece mi tocca crescere per davvero, rimanere lì e gestire con maturità difficoltà e scazzi; imparerò, certo, ma penso già con molta nostalgia alla porta socchiusa, all’uscita di sicurezza che chiuderò definitivamente martedì 24 agosto alle ore 12.
In questi momenti di trasformazione in movimento mi piomba addosso un’ansia pazzesca che si nutre di tutto il buio con cui ho dovuto fare i conti in questi ultimi mesi molto difficili e allora invece di pensare al bello che verrà temo il dolore che potrebbe tornare e vivo tutto amplificato e soprattutto ho paura di cose che probabilmente non _ri_accadranno mai più.
Un mio caro amico mi ha appena scritto che mi vuole bene anche se la mia vita migliora e con tenerezza e probabilmente senza alcuna consapevolezza mi fatto riflettere sul mio essere sempre randagia, concetto poetico e gipsy ma allo stesso tempo anche molto doloroso, sono sempre stata libera {abbandonata}, è vero, ma anche pronta al prossimo colpo nello stomaco, alla prossima tempesta in cui imparare a ballare e ti abitui quindi a stare sempre un po’ sulla difensiva, a non fidarti mai fino in fondo, a spiare i movimenti delle nuvole grigie per capire se davvero sarà tempesta.
Nel frattempo ti perdi la pace degli attimi sereni, la stabilità dei giorni che scorrono sempre uguali, una marea di piccole cose che quando sei pronta al peggio neppure noti e allora la randagia si deve costringere alla disciplina ferrea dell’ottimismo che già pratica, è vero, ma più che altro quando accade qualcosa di brutto e si deve ricordare che passerà, come ogni volta. Mi specializzerò in un’analisi di realtà ottimista grazie ai miei nuovi capelli biondi, ad una pratica yoga che non guarderà in faccia nessuna delle mie eterne scuse per non fare fatica e Dio solo sa quanto ho bisogno ora del mio corpo, più che della mia mente, al fare l’amore prima di tutto con me stessa e al prendere atto di quanto amore e benevolenza ci siano effettivamente attorno a me e me li merito tutti, checchè ne dica la randagia.
E che sia per tutt* una fine estate piena di buoni inizi!
[Ho trovato questa bella immagine sul web, ma non ricordo purtroppo chi l’ha disegnata, me ne scuso e spero di recuperare l’autore]
Come mi ha fatto bene in questi giorni difficili avere accanto persone che non giudicano, mai, che non c’è neppure bisogno di scegliere le parole giuste perché di quale opinione sono loro non c’entra nulla, ti saranno accanto comunque, sempre e poi non se ne parlerà più.
Mi ha fatto tanto bene anche guardare i vecchi film d’amore sdraiata per terra sul tappeto, abbracciata con Massi e Pasqualino e poi pensare a situazioni surreali che mi facevano piangere dal ridere, lavarmi il viso stamattina con l’acqua magica di san Giovanni, bere tanto tè verde freddo, fare colazione a letto con la Benny, uscire di notte in balcone per annusare il profumo delle rose e guardare la luna, scrivere al mattino i nomi delle persone che amo e che mi sono venute a trovare in sogno, sono venuti anche la Nonnina e mio papà, mia mamma no, probabilmente aveva da fare, il pensare alle prime righe del prossimo racconto che scriverò su tutta questa storia e il dirmi che presto voglio proprio andare a vedere la mostra di Ghirri a Reggio Emilia. Mi hanno fatto molto bene anche la meditazione e il palo santo, il vino e il ripensare alle sequenze del saluto al sole perché ormai sto quasi bene e posso ripraticarlo, le telefonate lunghissime con la mia ginecologa e i polaretti.
Scelgo invece di non scrivere di ciò che mi ha fatto male, e ce ne sono state tante di cose che me ne hanno fatto in questo periodo, perché credo davvero che ciò che decidiamo di accrescere poi ci nutre e io scelgo il bene, sempre.
Stasera luna piena di fragola, perché è ora di raccogliere le fragole, quanto, quanto bene!
11:11, esprimi un desiderio!, Che finisca tutto presto Benny!, E sarà così.
La prossima sarà una delle settimane più difficili della mia vita ma per fortuna passerà anche lei e tornerò io, torneremo noi, con le piccole grandi cose che quando è tutto a posto nemmeno ci badi, poi in giorni come questi prendere appuntamento per la pedicure, decidere di intensificare yoga, acquistare online un vestito nuovo diventano dei salvavita, perché raccontano che ci sarà un dopo e sarà tutto sommato presto.
Ho deciso di non essere forte per forza e in alcuni momenti questo mi scatena i soliti sensi di colpa di chi è abituata a mostrarsi sempre infrangibile, di acciaio, a non far preoccupare gli altri perché in fondo ti senti sempre meno importante di tutto ciò che può accadere a chiunque. La vita a volte ti mette in situazioni che mai pensavi ti avrebbero riguardato, circostanze che molti anni fa hai anche giudicato duramente, quando ti sentivi perfetta e credevi che fosse un pregio, quando eri convinta che sarebbe bastato seguire poche semplici regole e tutto sarebbe andato bene, poi cresci e ti accorgi che è tutto molto più complesso di così, purtroppo o per fortuna.
Molto probabilmente, quando me la sentirò, questi giorni li racconterò perché da molti anni riesco a dare un senso solo se le narro, le cose. Nel frattempo però non chiedetemi nulla, per favore, mandatemi solo pensieri di luce e di benevolenza. Passo le mie giornate in compagnia di Pasqualino e di Emmanuel Carrère, fra tanti Barnaby e signore in giallo, molti gelati e messaggi wathsapp, in attesa di poter tornare a yoga con il mio vestito nuovo.
Ci sono persone che stanno sempre molto attente a non rompersi, io col tempo ho capito che il punto di rottura è invece il punto di massima tenerezza da cui poi non puoi più tornare indietro.
Io quando sto per rompermi ma non lo so ancora vado a Venezia, mangio meno e dimagrisco, faccio preghiere inverse di quelle che mentre le formuli ti dici che non sta per niente bene chiedere a Dio quelle cose, eppure…
Poi mi rompo
e la tenerezza non arriva subito, per carità, prima arrivano i sensi di colpa per non aver saputo evitare di rompermi, la rabbia perché invece è successo, la tristezza e l’angoscia nell’attesa che torni la benevolenza.
Ora sono qui, a questo punto. Tenerezza torna presto.
Quando ero piccola a Baggiovara, il mio paese, qualche giorno prima del 25 aprile passava di casa in casa Della Rosa, il presidente del partito comunista, a vendere le bandiere di carta della liberazione e i miei, i nonni e gli zii ne prendevano una ciascuno, facevano l’offerta al partito e poi il tricolore stava attaccato con lo scotch al cancelletto dell’entrata almeno fino al primo maggio e quando la toglievamo rimaneva un po’ il segno giallo della colla.
Della Rosa mio padre lo chiamava il sindaco di Baggiovara anche se non lo era per davvero, perché eravamo sotto il comune di Modena; ora è seppellito proprio di fronte ai miei e spesso lo vado a trovare e gli porto un papavero rosso, quando lo trovo nei campi di fronte al cimitero.
Il giorno della liberazione per noi è sempre stata festa grande perché ci siamo liberati del fascioe abbiamo avuto la democrazia, diceva mia nonna e io non capivo bene che cosa volesse dire, ma sentivo sotto la pelle che aveva ragione e con quella consapevolezza, con quell’idea ci sono cresciuta, la resistenza ha sempre fatto parte del mio sangue e della mia pelle.
Crescendo ho capito meglio, la storia me l’ha insegnato, l’attualità mi ha mostrato che il fascismo non è mai sconfitto una volta per tutte e che c’è sempre bisogno di resistenza, di lotta per la libertà, di rimanere umani e giusti, accoglienti e vigili.
I cancelletti dei miei genitori e dei miei nonni non esistono più, ma appese alla finestra degli zii e alla mie la bandiera di carta della resistenza continua ad esserci ogni 25 aprile, è una questione di famiglia, di sangue e di pelle, di resistenza, di rimanere umani.
Da quando ho iniziato a scrivere davvero il mio libro qui latito, scusatemi. Vedo che continuate a venire a trovare Comequando e mi fa tanto piacere. Ogni tanto mandatemi pensieri di forza e tenerezza perché scrivere davvero non è semplice, soprattutto se fra le pagine vuoi riportare in vita tua madre e non solo, c’è anche tuo fratello che non racconti praticamente mai, che in tantissimi quando dico ho un fratello rispondono non me n’ero mai accorto, ti ho sempre creduta da sola e in effetti è così, anche se lui c’è sono da sola, anzi, anche qualcosa di più.
Stamattina mi sono svegliata presto anche se è sabato, fra due ore mi vaccino contro sto covid dei me cojoni e sono emozionatissima, sto pensando a come vestirmi, un po’ come quando uscivo con Massi le prime volte, ieri ho anche messo lo smalto rosso, volevo andare dalla dottoressa in bici ma piove, pazienza. Poi mi fermerò dall’Eli in edicola per ritirare le piantine aromatiche di AISM e appena smetterà di piovere metterò mano al mio orto verticale creato lo scorso anno durante il primo lockdown, ricordate?
A Modena da giovedì siamo di nuovo in zona rossa e abbiamo molte restrizioni, a distanza di un anno onestamente non me l’aspettavo di tornare a questo punto, ieri è stato l’ultimo giorno di nido in presenza e lunedì noi tate scopriremo qualcosa in più di come lavoreremo d’ora in poi fino alla fine dell’emergenza, ad ora sappiamo poco e niente.
Nel frattempo il mio antidoto alla tristezza di questa situazione è la cura.
Ieri ho fatto il brodo per i tortellini del pranzo di domani e più tardi preparerò la torta, per la colazione della domenica ho ordinato un cestino buono con torta di mele, yogurt con frutta e granola e cheescake ai frutti di bosco ad Elena, la perfetta padrona di casa del b&b in cui abbiamo festeggiato il nostro matrimonio, poi con Benny abbiamo preso l’abitudine al pomeriggio di preparare i pop corn e giocare a forza quattro per ore.
In questo lungo periodo di restrizioni e regole che dobbiamo farci andare bene per forza abbiamo la possibilità di interrogarci su che cosa ci fa stare bene davvero ed è a portata di mano, più vicino di quanto crediamo.
Vi lascio ascoltando Shallow di Lady Gaga e Bradley Cooper.
Capita anche a voi di dovervi ricostruire quasi ogni mattina? Di svegliarvi con l’autostima e l’amore per voi stesse due piani più giù? Di avere la sensazione che tutto in quella giornata sarà troppo e voi non sarete certamente all’altezza?
A me sì, ultimamente un po’ troppo spesso, sicuramente a causa di un periodo difficile vissuto fra novembre e dicembre e anche per via di alcune ferite, la fragilità è forza e bellezza, sì, ma spesso pure autosabotaggio e fatica nel vivere.
Allora prendo Pasqualino a letto con me, lui mi si sdraia addosso fra mazoccate e slappate, io affondo il viso nella pelliccia e poi sono più o meno pronta per alzarmi. La sensazione di inadeguatezza però evapora molto più tardi e a volte rimane addirittura con me e in quei giorni so che la bellezza mi costerà tre volte tanto, ormai ci sono abituata e pian piano mi ricostruisco, mi ritrovo, ogni giorno.
Non è sempre così eh, per carità, ma in questo periodo sì.
Sono a casa malata (non è covid, state tranquilli) e mi pesa tutto, mi sembra di non concludere nulla,
tipo ieri, nel tardo pomeriggio mi sono messa a leggere Antonio Delfini, scrittore modenese che mi ha dovuto far conoscere la Ross, vergogna!, non riuscivo a smettere, passavo dalle poesie alle sue foto su google, dagli articoli su di lui ai pettegolezzi immaginando la Modena della prima metà del 900, che meraviglia, checchè ne dicesse Delfini, bè, è arrivata mezzanotte e non me n’ero neppure accorta e mentre mi mettevo a letto mi sono detta cos’ho concluso oggi? Nulla praticamente e mi è parso di sentire lo scopellotto che mi ha dato Delfini in persona.
Poi i sensi di colpa, pane quotidiano della me in crisi, sono inutili da ogni punto di vista, lo so benissimo, ma stanno alla me di questi giorni come la nebbia alla pianura padana in inverno e quindi mi sento in colpa perché non vado a lavorare e poi esco prima del consentito e mi torna la febbre e mi sento in colpa anche perché Massi si sveglia presto, porta fuori Pasqualino e da da mangiare ai gatti, vuota la lavastoviglie e va a lavorare, poi magari io nonostante l’influenza faccio due lavatrici, le stendo, preparo il ragù, passo il dyson, inforno la torta margherita per merenda e ascolto la mia bambina che da brava adolescente ha un rapporto abbastanza tumultuoso con la vita, pulisco la lettiera dei gatti dodici volte al giorno, leggo, scrivo e sto sicuramente dimenticando qualcosa, ma mi sento in colpa perché Massi a causa della mia influenza si alza prestissimo al mattino e le mie colleghe al nido hanno la supplente.
Ah, mi sento in colpa anche perché ho un progetto bellissimo e in alcuni momenti mi dico stupendo! e mi sento fortissima, in altri ma chi mi credo di essere, meglio lasciare perdere, circaquattro volte ogni giorno in cui sono in crisi. Non è facile arrivare a sera così, è un dispendio di energie enorme.
È molto meglio preparare tutto per il compleanno di Pasqualino che festeggeremo a pranzo e mettere mano al mio progetto bello, che oggi è anche Imbolc e seminiamo le intenzioni di tutto l’anno, una mano forte, risoluta, determinata, che non si fa spaventare dalla paura e fanculo alle giornate in cui pensi di dover ricostruire tutto,
Quasi un mese di silenzio qui, anche se vedo che ogni giorno in divers* tornate a vedere se c’è qualcosa di nuovo, a leggere e rileggere ciò che ho scritto in questi 3 anni di Comequando e mi fa tanto piacere, così rieccomi.
Questo mese è trascorso fra nuovi inizi faticosi ma anche luminosi, tante cose scritte sui miei quaderni coi fiori in copertina, un bellissimo corso di scrittura femminile esorbitante terminato ieri con il cuore gonfio di gratitudine per aver finalmente riconosciuto dopo tanti anni il mio senso, di trovare le parole giuste per dirlo e poi dirlo sul serio ciò che ho da dire, l’Amore sempre nuovo e qualche preoccupazione, anche un po’ di febbre e mali di stagione, ma poi via che si va.
Mi sono rifatta la frangetta corta, quella alla Audrey Hepburn o alla Amélie per intenderci e sto lasciando crescere i capelli, ho iniziato le pulizie profonde per Imbolc, il sabbat che chiama la primavera e ho tanto bisogno di eliminare le energie stantie dell’inverno e di questo periodo buio per tutti; lunedì oltre ad Imbolc festeggiamo anche il compleanno di Pasqualino, il cane che non sapevamo di volere e che ci ha cambiati profondamente, gli ho preso una cravatta rossa per la festa, non voglio perdere neppure un’occasione per celebrare la tenerezza.
Il primo dell’anno mi sono fatta un piccolo regalo, un ciondolo con la rosa dei venti a otto punte, perché in mezzo a tutti i casini che possono accadere nella vita, e nell’ultimo anno ne abbiamo avuto davvero prova, voglio sempre saper ritrovare la stella polare, ciò che mi guida e mi illumina.
Un groviglio di luci da dipanare e per tanti nodi non ci sono neppure riuscita, pazienza. Con alcune cose bisogna semplicemente imparare a convivere, non si può risolvere tutto.
Il 2020 è stato invaso e buttato all’aria da una pandemia mondiale, la vita di tutti è stata stravolta e tanti purtroppo la vita l’hanno anche perduta. Noi per fortuna non ci siamo ammalati; per Massimo prendere il covid significherebbe un gran casino e non voglio neppure pensarci.
In questo 2020 abbiamo vissuto il ricovero al Sant’Orsola e le cure affettuose di Sandra, la mia prof dell’Università che mi ha ospitata mentre Massi era ricoverato. Con lei ho capito che se avessi ancora una madre sarebbe così, come lei e forse una madre un po’ ce l’ho, è lei, ma anche altre donne stupende che mi sono vicine.
In questo 2020 sono andata da sola a Roma alla presentazione di un libro della Ross e mentre ero là è stato dichiarato il lockdown; le foto del Colosseo al tramonto mi hanno aiutata non poco nei mesi successivi, una l’ho anche appesa in salotto, è il mio rescue remedy ancora oggi.
In seguito al primo lockdown ho perso il lavoro, le tate precarie lo smart working non lo fanno, però ricordo con affetto le mail con l’INPS e i video in cui leggevo ai miei bimbi le Favole al telefono di Rodari.
Ricordo anche i pomeriggi di sole invernale e poi primaverile a leggere sul balcone, la creazione del mio orto nel pallet riciclato, la fioritura della peonia spiata e contemplata giorno per giorno, l’ascolto della vita attorno a me, non avevo mai avuto l’occasione di fermarmi così tanto ad ascoltare. E poi i caffè sul pianerottolo e i magoni condivisi con le persone più vicine, i vicini appunto, che da presenze veloci e quasi impercettibili sono diventati persone insostituibili con cui condividere e saltarci fuori, insieme, oltre le simpatie e i credo politici, la bellezza dell’umanità e basta. Il 2020 delle canzoni sui balconi e dei carabinieri perché non se ne poteva davvero più di tutto quel casino, dei 7 chili in più, è impossibile, ma dove li hai messi?!, dell’andare a fare la spesa nella bottega del paesello in abito da sera, delle serie tv e del prendere confidenza con le mascherine, delle code interminabili alla Coop, dell’ansia di uscire ma anche della voglia di tornare a vivere da viva non da zombie impaurita, dello yoga online ogni giorno e dello scoprire un amore inedito per le persone che avevo accanto, un sentimento e un’emozione mai provati, un esserci gli uni per gli altri che ci unirà per sempre. E ancora l’estate, la vita quasi normale che tornava, l’arrivo di Pasqualino e della Rai, il concorso, la mia solita sfiducia, la randagia col solito buchino dentro, un’altalena continua di emozioni, su e giù su e giù su e giù, le speranze, le attese, di nuovo il lavoro, l’Amore su cui le randagie si fanno almeno mille domande al giorno, le amiche e gli amici e di nuovo il lockdown, prima giallo, poi arancione e infine rosso, come un bel tramonto, solo che ormai neppure io che vedo sempre tutto bello riesco a vederlo bello sto tramonto. Pazienza, avanti pure.
Oggi questo delirante 2020 sta finendo, lo lascio andare serenamente, senza rancore, in fin dei conti non è colpa sua se è successo tutto sto casino. Ci sono state cose belle, soprattutto alla fine, proposte inattese che si sono rivelate regali bellissimi e poi oggi c’è un sole stupendo, una luce incantevole. Entro nel nuovo anno con un sogno che mi porto dietro da tanto e che nel 2021 voglio provare a realizzare, anche lui mi provoca tanti su e giù di emozioni, dal ce la farò e sarà bellissimo al ma chi mi credo di essere, pazienza, sono fatta così, ormai mi conosco!
Vieni pure 2021, sono pronta! Armata di sogni, buchi, lacrime, occhi che brillano, passioni infinite e stanchezze altrettanto infinite, speranze e delusioni, quante delusioni! ma va bene così. Sarà un bellissimo 2021, perché la bellezza c’è sempre, anche quando si nasconde bene.
Ieri mia mamma avrebbe compiuto 72 anni ed è iniziata la campagna vaccinale contro sto covid demmerda e quindi mi pare che possiamo sperare in un 2021 migliore, ma non ne sono sicura.
Questo è stato un anno faticosissimo, incredibile
in cui ho dovuto imparare a non disperarmi per nessun motivo al mondo, soprattutto verso sera quando sono più stanca e mi dico stacca tutto, non ci pensare più e vedrai che domattina andrà meglio e poi non è che al mattino va davvero meglio, ma almeno ho l’energia per far sì che davvero possa essere così.
Ho dovuto imparare anche che tutto passa e si modifica, per cui a volte basta avere la pazienza di aspettare che le cose passino e nel frattempo rimanere me stessa senza demolirmi come che sia io la causa di ciò che non funziona, non è che ci possiamo sempre dare le colpe di tutto, a volte la vita è brutta e cattiva e basta e non per colpa tua.
Spesso aspettiamo una felicità facile, che ci cada addosso improvvisamente e se così non è allora fanculo tutto, smarriamo il senso di noi e a volte anche il noi, mentre la felicità è fatta da una miriade di gesti e scelte quotidiane anche quando non ci rendiamo conto che la stiamo scegliendo e costruendo e quando arriva non è come vincere alla lotteria, ossia un fatto totalmente casuale, ma perché ce la siamo sudata e meritata. Ci vuole tanta fede in queste faccende qui, fede in noi stessi, anche quando ci sentiamo sbagliati, rotti, lontani, sfortunati, incompleti, matti.
Poi le cose giuste per noi arrivano sempre, magari un po’ in ritardo ma arrivano, basta avere il coraggio di costruirle e poi aspettarle.
Ecco il mio augurio per il 2021: di avere sempre un coraggio gentile e rispettoso, risoluto e pazzo, nonostante tutti gli intralci, covid compreso.
Spesso i miei articoli sono fuori dal coro e un po’ bastian contrari e questo, visto il periodo, lo sarà certamente più di altri.
Scriverò del Natale e del mio totale disinteresse di non poterlo passare con i miei cari, anzi, per certi versi Conte mi ha fatto un favore a chiudere comuni e regioni.
Non insorgete, ora mi spiego. Non sono una delatrice della famiglia, anzi, me ne sono fatta addirittura due e cerco di essere presentissima e amorevole anche con tutti gli amici più stretti, che considero famiglia anche loro, ma il decreto natalizio non può colpirmi a livello di parenti di primo grado e ora vi dico perché.
Io sono orfana da molti anni, ci ho messo tanto tempo e moltissimo impegno per non farmi mancare i miei genitori il giorno di Natale, quindi ora con sta pandemia mi trovo avvantaggiata, se così si può dire.
Ci sarebbe però la famiglia di mio marito e qui si apre un capitolo quasi più doloroso della mia orfanitudine.
Stiamo insieme ormai da molti anni e siamo sposati da quasi due, ma non abbiamo mai, mai ricevuto un invito per Natale; quando il figlio lo ha fatto presente gli è stato detto che noi possiamo andare da loro quando vogliamo, non abbiamo bisogno di un invito, quindi mai nulla di organizzato, atteso, preparato col cuore, ma solo sì dai, se proprio vuoi vieni. Per anni ho organizzato il Natale io, da noi, non accettavo che loro ci fossero, a differenza dei miei, e che non gliene fregasse nulla di passare le feste con il loro figlio, con la famiglia, io ho bisogno per la mia storia di unire, tenere insieme, creare occasioni per stare bene insieme ma con loro non ci sono purtroppo mai riuscita fino in fondo. Loro sono riusciti ad insegnarmi che ad un certo punto è bene lasciare perdere, io che alla fine bene o male sono sempre riuscita a smuovere anche le montagne, ma con loro no.
L’ultima volta che è venuta lei, 4 anni fa, non ha voluto mangiare quasi nulla a parte una minuscola fettina di arrosto, avevo cucinato per ore come faccio sempre in queste occasioni, per me il preparare con cura il cibo e addobbare casa con luci e profumi sono gesti di amore profondo che però in alcuni casi cadono nel vuoto. L’ultima volta invece che è venuto lui, 2 anni fa, avevo preparato personalmente i tortellini, fatto il brodo di cappone e l’arrosto delle grandi occasioni, spignattavo dalla vigilia e lui si è portato il cibo da casa senza chiedere nulla, una teglia di lasagne oltretutto da cuocere completamente anche se lui diceva che erano solo da riscaldare, per cui siamo stati un’ora e mezza davanti al forno a cercare di riempire l’imbarazzo con discorsi sul tempo e Massimo furioso e muto. Da quel momento ho deciso che non li avrei mai più invitati, erano troppo mortificanti e tossici, ma i natali solo noi rimangono un discreto dolore, è come essere orfana due volte, anzi quattro.
I miei suoceri sono come Scrooge all’inizio del Canto di Natale di Dickens e non credo che miglioreranno mai:
– “Non siate così di malumore, zio – disse il nipote.
– Sfido io a non esserlo – ribatté lo zio – quando s’ha da vivere in un mondaccio di matti com’è questo. Un Natale allegro! Al diavolo il Natale con tutta l’allegria! O che altro è il Natale se non un giorno di scadenze quando non s’hanno danari; un giorno in cui ci si trova più vecchi di un anno e nemmeno di un’ora più ricchi; un giorno di chiusura di bilancio che ci dà, dopo dodici mesi, la bella soddisfazione di non trovare una sola partita all’attivo? Se potessi fare a modo mio, ogni idiota che se ne va attorno con cotesto “allegro Natale” in bocca, avrebbe a esser bollito nella propria pentola e sotterrato con uno stecco di agrifoglio nel cuore. Sì, proprio!
– Zio! – pregò il nipote.
– Nipote! – rimbeccò accigliato lo zio, – tieniti il tuo Natale tu, e lasciami il mio.”
Ecco il mio Natale al riparo dai dpcm, dove chi amo di più è vicinissimo per fortuna. Rimane però un po’ di invidia per le vostre famiglie più larghe, belle e unite, lasciatevelo dire.
Cucù, eccomi! Perdonate la lunga assenza qui, ma stavo provando a prendere le misure di queste settimane così strane, poco luminose, faticose e per certi versi deliranti che stiamo vivendo, io che all’inizio di questa pandemia mondiale avevo scritto che sarebbe finito tutto presto, come tutte le cose senza cuore, la solita poetica io e infatti il covid è ancora fra noi e ci ha rubato molta della serenità che davamo per scontata prima che arrivasse lui.
È in corso un cambiamento profondissimo, tanto vale assecondarlo e non combatterlo, ma non è facile, lo sappiamo tutti molto bene.
Qualche giorno fa ho letto un pensiero di Chiara Gamberale che mi ha colpita tanto e ha dato una svolta alla mia riflessione.
Eccolo: “In questo secondo lockdown siamo angosciati perché quello che stiamo chiamando pandemia altro non è che la nostra stessa esistenza. Ci preoccupa il fatto che alla fine del tunnel c’è di nuovo la nostra vita: siamo sicuri di volerla ancora?Senza più i palliativi, le distrazioni, gli amici, i viaggi ci ritroviamo a tu per tu con le nostre scelte. Il secondo lockdown ci inchioda alle nostre vite”
e quando ho letto queste parole ho strabuzzato gli occhi, mi sono detta che è proprio così, siamo inchiodati alle nostre vite e non possiamo più condirle con fronzoli e cotillon come facevamo prima, non possiamo più distrarci, dobbiamo per forza guardarle in faccia, queste nostre vite e anche loro ci osservano, inesorabili e i vuoti, i buchi, i dolori si notano molto di più di prima.
Sento tanti amici in crisi, anche io mi chiedo molto spesso come sarà il domani e mi rendo conto che il mio oggi esattamente così com’è non mi corrisponde più completamente, che effettivamente avrebbe bisogno di riflessioni e cambiamenti e questa è la parte più faticosa, più sfidante e complicata,
o forse no. Perché è vero che i cambiamenti fanno paura e mettono un po’ di ansia, ma è altrettanto vero che solo mettendoci in discussione e migliorandoci possiamo continuare a crescere e avere una vita in cui riconoscerci pienamente.
E poi è anche una faccenda di sogni; la vita frenetica di prima forse ci aveva portato a metterli da parte, a pensare che potevano stare nel loro cassettino perché avevamo moltissimo altro da fare e ci andava bene così. Nel silenzio e nell’immobilità di questo periodo invece abbiamo più tempo per ritrovarli e pensare seriamente a come realizzarli, o almeno io lo sto facendo e fra mille non ce la farò mai e altrettanti perché non dovresti farcela mi sto rimboccando le maniche, perché la prima che deve credere in se stessa sono assolutamente io.
Oggi è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne e chi mi segue sui social sa quanto questo sia un tema che mi sta a cuore e non solo oggi, per me è sempre il 25 novembre.
Di seguito troverete i mieiè violenza se,
alcuni sono accaduti autobiografici, altri no ma è come se lo fossero, perché la violenza sulle donne ci riguarda tutte, anche quelle donne che paradossalmente dicono che va bene così, che il problema non esiste, che sono le femministe in realtà che rovinano il mondo e rendono i poveri uomini aggressivi e frustrati.
I miei è violenza se riguardano piccole e grandi violenze perpetrate sia da uomini che da donne e che vengono da quell’unico contenitore che è il patriarcato che li contiene entrambi.
È violenza se la tua futura suocera e sua cognata ti guardano da capo a piedi e ti dicono “ma come fai ad essere così magra?! Ma tanto diventerai grassa anche tu quando andrai in menopausa!” e giù a ridacchiare,
se il presidente di commissione di un concorso durante la prova orale ti chiede dove lascerai tua figlia di pochi mesi quando avrai i turni di pomeriggio tardi o di sera, quando il nido è chiuso,
quando vai a fare un colloquio di lavoro e il selezionatore ti chiede ridendo se hai intenzione di fare (altri) figli.
È violenza se nei titoli di giornale leggiamo di notizie riguardanti donne importanti che però vengono nominate solamente come una donna, senza nome, senza cognome, senza titolo, come che alla fine quello che costruiscono le donne non sia poi così importante, sono semplicemente donne fra tante.
È violenza se si da per scontato che l’accudimento dei bambini, dei malati, dei familiari con problemi sia solo ed esclusivamente femminile, sono le donne che devono pensarci e portare tutto il peso emotivo e psicologico di situazioni pesantissime,
se si da per scontato che sia sempre la donna a dover adattare la propria vita alla vita che cambia, perché per loro è facile, ci sono abituate, possono permetterselo,
se quando la donna dice la verità, che si sente sola e non ce la fa più, allora diventa l’esaurita incapace da sbeffeggiare o da allontanare, per essere ancora meno presenti e farle sentire che la responsabilità è sempre tutta sua.
È violenza se alla sera lui torna a casa e lei è sul divano, la tavola non apparecchiata e lui inizia a sbattere le porte, gli oggetti e non parla per ore e lei gli chiede cos’è successo e lui gelido risponde niente,
se sottolinea che lui lavora, lui, come che lei invece non faccia nulla,
se spesso dice per fortuna che ci sono io con te, altrimenti saresti completamente sola.
È violenza se una ragazzina di 18 anni viene violentata per 20 ore da un facoltoso imprenditore e la colpa è di lei che è andata a quella festa con le sue gambe, è entrata in quella camera con le sue gambe (cosa si credeva, di andare a recitare un rosario?), che ha messo foto con abiti da mignotta sui suoi social, che si vede dai che è una puttanella, altrimenti sarebbe stata a casa sua, e poi suo padre dov’era, come mai ha dato tanta libertà a sta debosciata che poi è andata a mettere nei guai un povero imprenditore di 44 anni che ha fatto quello che ha fatto solo a causa della cocaina, poverino: sono state la cocaina e la tentazione, non lui a sfondarla.
È violenza se una maestra 22enne subisce il reato di revenge porn e parallelamente a causa del video divulgato viene costretta al licenziamento dalla sua datrice di lavoro scandalizzata per il fatto che l’angelica maestra faccia sesso e le piaccia e tantissime persone si permettano di dire che non avrebbe dovuto divulgare quel video, che non si sarebbero mai aspettate che facesse quelle cose e allora con i miei figli non la vorrei per nessun motivo al mondo,
quindi è violenza se le persone, uomini e donne, si permettono di dire alle donne come si devono comportare, che cosa possono o non possono fare e pensare.
È violenza se ci si sente dire che le donne sono esseri superiori e che il sole sorge perché ci sono loro e insegnare ai nostri figli maschi che le donne sono fragili e vanno protette, non è vero e questi pensieri apparentemente gentili sono solo l’altra faccia del pensare alle donne come cosa propria, si chiama patriarcato e paternalismo,
ma è violenza anche se molte donne prendono in giro chi in canotta e short passa in vicoli poco raccomandabili perché lo dovrebbero sapere che gli uomini faranno commenti e gesti pornografici, o addirittura la molesteranno ed è indubbiamente colpa loro perché l’uomo è di carne e se lo provochi………………
È violenza se le colleghe donne ti obbligano a turni non previsti dal contratto pur sapendo che la collega non ha aiuti col suo bambino e il marito lavora (lui) e ti fanno mobbing se non ti presenti all’orario da loro stabilito (non previsto dal contratto, ripeto),
se le donne si ritorcono contro le altre donne perché sono più patriarcali degli uomini.
È violenza ogni volta che ad una donna viene detto con disprezzo di tacere.
Potrei andare avanti ancora molto con questo post, ma credo che ciò che ho scritto sia abbastanza e chi mi legge può tranquillamente continuare la lista se lo vuole.
La violenza sulle donne è uno stigma, uno stereotipo, uno sfruttamento criminale, rendiamocene conto noi donne per prime. Curiamo l’amore per noi stesse, la stima che ci dobbiamo, la consapevolezza del nostro valore e la gioia per la nostra autenticità più profonda e basta con il bisogno degli uomini e quindi vogliamo parità di diritti e di salari per essere libere e aver bisogno di un uomo solo per amore. O anche no e va bene così.